Paolo Bozzi (2003)

Note sulla mia formazione, le mie esperienze scientifiche, le mie attuali posizioni

(all'occasione d'una nota all'articolo della dott. Liliana Bernardis)

[This paper was written by Paolo BOZZI for "GESTALT THEORY - An International Multidisciplinary Journal" in 2003, some months before his untimely death. It was originally published in German translation - by Rosamaria VALDEVIT - titled "Anmerkungen zur Praxis und Theorie der experimentellen Phänomenologie" in GESTALT THEORY 25 (3/2003), 191-198. ]

Accolgo molto volentieri l'invito della Redazione della rivista Gestalt Theory a commentare il saggio della dott. Liliana BERNARDIS sull'epistemologia di W. KÖHLER narrando la mia formazione e le mie esperienze scientifiche all'interno dell'Istituto di Psicologia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Trieste ai tempi di KANIZSA, di cui fui per lungo tempo allievo e collaboratore - come ben sottolinea nella sua breve nota la dott. Rosamaria VALDEVIT; e infine illustrando le mie attuali posizioni in materia di filosofia della percezione, scaturite da quella importante esperienza.

A metà degli anni cinquanta ero un laureato in filosofia indeciso tra la logica e la psicologia sperimentale, e sostanzialmente liberato da una consistente preparazione neohegeliana che aveva caratterizzate i miei studi di filosofia. Avevo scritto una tesi di Laurea molto lontana da quei temi, studiando il pragmatismo di PEIRCE e JAMES, e analizzando nei dettagli il pragmatismo epistemologico di Giovanni VAILATI, uno studioso italiano di eccezionale originalità, ma assai poco noto a quell'epoca.

KANIZSA mi conobbe alla tesi di laurea, e due anni dopo mi invitò a fare lo psicologo della pubblicità in una Ditta di Milano. Non avevo inclinazione per la psicologia applicata, a cui preferivo di molto l'analisi fenomenologica della percezione. E proprio a Milano mi accadde di osservare che le oscillazioni di un pendolo possono apparire 'troppo rapide' o 'troppo lente' o 'naturali', e mi sembrò di scoprire in questo fatto un sottile filo tra la meccanica di GALILEO e quella di ARISTOTELE. Subito KANIZSA colse l'interesse della cosa, e mi chiamò come assistente nel suo Istituto di Trieste. Qui, nel 1958 e 1959 scrissi i miei primi lavori di Fisica Ingenua. [1] BOZZI, Paolo (1998): Fisica Ingenua. Milano: Garzanti (2a ed.)

Nell'Istituto di KANIZSA non c'era troppo spazio per le discussioni teoretiche, considerate troppo astrattamente filosofeggianti; ma in compenso si lavorava moltissimo e alacremente su problemi sperimentali di percezione visiva, territorio in cui KANIZSA era - come è noto - un prodigio d'inventiva. L'istituto non solo era in lavoro per opera di noi assistenti (dott. Giorgio TAMPIERI, dott. Guido PETTER e io stesso), ma anche per la frequentazione assidua di tre psicologi bolognesi, il dott. Marino BOSINELLI, il dott. Gianfranco MINGUZZI e il prof. Renzo CANESTRARI (che durante gli anni sessanta sarà legato di profonda amicizia con W. METZGER).

Costruivamo noi stessi gli apparecchi sperimentali, senza l'aiuto di tecnici, eseguivamo le sperimentazioni e scrivevamo le nostre relazioni scientifiche sotto la stretta sorveglianza di KANIZSA.

La teoria ufficialmente adottata era quella della Gestalt, in forma ortodossa. Gli esperimenti riferiti nelle annate della Psychologische Forschung e quelli commentati nel trattato di KOFFKA dovevano esserci perfettamente noti, e KANIZSA era garante dell'ortodossia gestaltistica.

Vanno però notate due cose.

Primo: la discussione teoretica era molto scoraggiata come superflua, tanto che il libro di KÖHLER "The Place of Value in a World of Facts" non fu né letto né discusso da nessuno, anche quando io lo feci tradurre in italiano; e il testo sempre citato di METZGER era il "Gesetze des Sehens", molto poco la "Psychologie" - finché KANIZSA non la tradusse molti anni dopo.

Perché racconto tutto questo? Perché al riparo dalle discussioni teoretiche che potevano apparire fumose, noi praticavamo un certo modo di sperimentare, che era tipico dello stile di KANIZSA e divenne abbastanza tipico anche per tutti noi, influenzano me in modo particolare.

L'arte di KANIZSA consisteva nel porre sotto gli occhi dell'osservatore certe strutture visibili, abbastanza elementari, e apportare poi modificazioni visibili sempre sotto gli occhi dell'osservatore, dalle quali conseguissero effetti visibili paradossali e inaspettati - in contrasto con ciò che ci aspetteremmo conoscendo la fisica, l'ottica, e le pratiche comuni del buon senso. Nel fare questo tutti gli scrupoli psicofisici cadevano fuori campo, e non capitava mai che si facesse menzione di ciò che eventualmente può succedere nel cervello. L'essenziale era che da certe premesse osservabili, attraverso operazioni osservabili si ottenessero effetti osservabili e paradossali. Chi oggi ripercorra le classiche ricerche di KANIZSA in campo visivo (per esempio quelle raccolte in "Organization in vision" [2] KANIZSA, Gaetano (1979): Organization in Vision. New York: Praeger.) troverà ricorrente in ogni ricerca questo schema e questo metodo. Agire fenomenicamente su un fatto fenomenicamente esplicito per ottenere effetti fenomenici paradossali. In questo modo, nel lavoro sperimentale conta la scoperta. L'esperimento come controllo sperimentale di ipotesi passa in secondo piano, la quantificazione e la misura si praticano entro limiti strettamente necessari, e il merito del lavoro sta nella sua novità. Questo fatto nessuno lo aveva notato prima, e adesso e lì, in tutta la sua ineludibilila.

La tradizione di laboratorio corrente giocava sulla dualità psicofisica 'stimoli-percezioni', e la gran parte della ricerca gestaltistica ortodossa di quei tempi è infatti una sorta di psicofi- sica complessa. La psicofisica elementaristica è sconfitta dai gestaltisti mediante una psicofisica globale in cui il passaggio epistemologico attraverso gli stimoli resta d'obbligo. Nell'operare geniale di KANIZSA è invece presente un continuo ricorso a quel procedimento che ora si chiama 'percept-percept coupling': una proprietà fenomenica agisce su un'altra proprietà fenomenica direttamente e visibilmente, quale che sia l'immaginabile stato dei relativi stimoli.

Per questo i miei pendoli animati da oscillazioni 'naturali' o 'troppo rapide' o "troppo lente" ebbero successo nell'Istituto di Trieste; in quelle situazioni dinamiche si vedeva direttamente come variando il ritmo di oscillazione del pendolo si passasse da un'impressione di pigra lentezza alla calma del moto naturale, alla velocità nervosa ed eccitata, con continuità tenuta sotto osservazione.

In questa sua preferenza teoretica KANIZSA si avvicinava più alla scuola di Graz (MEINONG, BENUSSI ) che non ai gestaltisti alla KÖHLER. Nel suo modo di procedere non tanto sono in gioco gli 'stimoli' e le 'percezioni', quanto gli 'inferiora' e i 'superiora', compresenti nelle configurazioni proposte all'osservazione e, diciamo così, ontologicamente complanari. In questo modo di procedere KANIZSA non è un gestaltista ortodosso: nei classici gli stimoli fisici e quelli prossimali sono la variabile indipendente, le percezioni la variabile dipendente; nella pratica della ricerca kanizsiana variabili indipendenti e dipendenti giacciono sullo stesso piano e sono entrambe simultaneamente osservabili.

Questa è una prima eterodossia di KANIZSA. Di altre due parleremo tra poco.

La resistenza a discutere di teoria di cui parlavo più sopra impediva una ripercussione delle nostre pratiche di ricerca sul linguaggio tecnico e sulle concezioni generali astrattamente professate.

Per questo motivo, quando scrissi - negli anni 1963-65 - un libro di teoria in cui illustravo le scoperte dei gestaltisti e qualche fatto nuovo trovato da me al di fuori dello schema 'stimulo-percezione" ed evitando ogni riferimento alla fisiologia del cervello e al postulato dell'isomorfismo quel libro (di cui forse una copia dattiloscritta è ancora in possesso della dott. VALDEVIT) non fu ammesso alla pubblicazione. La mia idea era che lo studio della percezione si potesse realizzare nel quadro teoretico di una fenomenologia sperimentale pura, epistemologicamente indipendente da presupposti fisiologici, e in cui i cosiddetti 'stimoli' della tradizione psicofisica Gestalttheorie inclusa fossero considerati alla stregua di operazioni, operazioni nel senso di BRIDGMAN, praticate sugli stesso oggetti percettivi indagati dallo sperimentatore.

In questo modo io raccontavo in termini di teoria quello che vedevo fare ogni giorno KANIZSA e i suoi allievi, tra i quali appunto io stesso. Non ci sono due mondi, uno fenomenico e un altro al di là di esso: tanto è vero che ogni indagine sulla percezione viene realizzata restando bene al di qua, tra gli oggetti e gli eventi fenomenici, e tutti gli ingredienti della percettologia sono a portata di mano tra gli osservabili, diciamo così; a portata di sguardo. Da quel momento, e forse proprio grazie al fatto che quel mio libro non fu mai pubblicato, perseverai in questa linea di pensiero trattando ogni mia ricerca sperimentale e ogni mio sviluppo teoretico in termini di fenomenologia sperimentale pura, il che spiega bene la mia collaborazione con la dott. Liliana BERNARDIS nella sua tesi di laurea.

Negli ultimi anni sessanta il Prof. KANIZSA dedicò molto del suo tempo alla traduzione della "Psychologie" di METZGER. Questa fatica lo indursela guardare con minor sospetto alle questioni di teoria e per fino a certi problemi filosofici. Non ci fu più una ortodossia gestaltistica della scuola di Trieste, ma molte discussioni. Ognuno di noi era libero di ripensare i testi della Gestaltpsychologie a proprio modo. In questo nuovo clima io tenni alcuni seminari in cui cercavo di mostrare come la ricerca percettologica ispirata allo stile gestaltistico polisse fare a meno delle incursioni nella fisiologia del cervello, che del resto non erano mai state prese sul serio dai fisiologi di mestiere, i quali cadevano dalle nuvole, quando sentivano parlare di campi elettromagnetici o di altri ingredienti implicati nella applicazione del postulato dell'isomorfismo. Il mio intento era quello di mostrare come si potesse fare ricerca sperimentale in percezione (e scoprire fatti nuovi in quel campo) considerando i fatti percettivi 'iuxta propria principia', cioè inquadrati In principi teorici radicati nell'esperienza fenomenica stessa, senza ricorso all'importazione di concetti da altre discipline. Certo questa impostazione non poteva essere estesa a tutta la psicologia sperimentale: così la meccanica classica non esaurisce tutta la fisica, né la geometria euclidea esaurisce l'universo delle geometrie - ma sono sistemi chiusi, o quasi chiusi, che esemplificano bene un certo tipo di coerenza interna e di autonomia. Cosí doveva essere la fenomenologia della percezione.

Io non so quanto questa idea di autonomia della fenomenologia del la percezione piacesse a KANIZSA. Certo è che dopo la pubblicazione dell'edizione italiana della "Psychologie" di METZGER in pochi anni uscirono tre lavori di KANIZSA che lo definiscono con tutta chiarezza come gestaltista non ortodosso. Il primo lavoro è intitolato " 'Errore del gestaltista' ed altri errori-da-aspettativa", ed è uscito sulla Rivista di Psicologia (LXVI, 3-18 - 1972); gli altri due sono intitolate 'The Role of Regularity in Perceptual Organization" (Studies in Perception, a cura di G.B. FLORES D'ARCAIS, Firenze 1975) e "Prägnanz as an Obstacle to Problem Solving" (Italian Joumal of Psychology II,3 - 1975).

L'errore del gestaltista, secondo KANIZSA, consiste nell'assunzione che le proprietà del tutto debbano sempre determinare le proprietà delle parti, imponendo ad esse la loro legge: ma questo accade qualche volta sì e qualche volta no, trasformando il famoso principio in una eventualità contingente. KANIZSA cita parecchi esempi in cui un gestaltista si dovrebbe aspettare qualcosa e invece ne succede un altra, perché anche le condizioni locali di una configurazione percettiva, atomisticamente intese, hanno le loro buone ragioni. Egli inventa, tra gli altri, un esempio molto eloquente: osservate una normale scacchiera, e poi appoggiate un dischetto grigio di diametro un po' superiore al lato dei quadrati della scacchiera su un quadrato o bianco o nero a vostro piacimento, in modo che il suo centro ideale venga a trovarsi in corrispondenza del centro ideale dal quadrato da voi scelto. Vi aspettate naturalmente che avvenga un completamento amodale della scacchiera dietro al dischetto, nella porzione di spazio occlusa, poiché la proprietà del tutto possiede la regolarità appunto di una scacchiera. Invece, nell'intorno del dischetto occludente è visibile una croce formata dai quattro quadrati parzialmente occlusi, nera se il dischetto copre un quadrato bianco, bianche se il dischetto copre un quadrato nero. La legge del tutto ('scacchiera') cessa di agire in quel posto per lasciar luogo all'azione di condizioni locali, e lì il tutto, per così dire, non agisce sulla parte.

Nel secondo articolo, quello sulla regolarità come fattore di unificazione tipicamente gestaltistico, KANIZSA si distacca in maniera ancor più decisa dal quadro teoretico convenzionale. Con numerosi esempi egli dimostra che la regolarità e la simmetria non sono fattori paragonabili alla 'vicinanza', 'somiglianza', 'continuità di direzione', 'chiusura' ecc. poiché strutture visive buone e stabili si possono ottenere ugualmente bene con configurazioni asimmetriche e irregolari e non pregnanti. La "Prägnanz" sarebbe da considerarsi piuttosto un effetto fenomenicamente rilevante, che non una causa del modo di apparire delle configurazioni, e andrebbe cancellata dall'elenco delle leggi di WERTHEIMER.

Lungo questo itinerario KANIZSA è indotto a rivedere anche la funzione che, secondo la versione ortodossa della Gestalttheorie, il principio di pregnanza dovrebbe avere nei processi di pensiero, idea che è fondante nell'opera postuma di WERTHEIMER "Productive Thinking", KANIZSA inventa un problema appunto 'alla WERTHEIMER', e dimostra che - in un caso come quello, ma certo anche in molti altri - il perseguire le istanze della pregnanza suggerite dalla figura oggetto del problema conduce fuori strada e blocca la possibilità della soluzione. Questa dimostrazione è contenuta nel terso degli articoli citati qui sopra.

Riassumendo il punto in poche parole Gaetano KANIZSA va considerato come un gestaltista non ortodosso per tre motivi:

1) le sue scoperte sperimentali sono caratterizzate tutte dal fatto che sia le variabili indipendenti sia le variabili dipendenti, giocano i loro ruoli sullo stesso piano, nel campo dell'osservabilità diretta, aggirando il discorso degli stimoli e ancor più quello degli eventuali processi fisiologici correlati; e in questo è molto più vicino alla scuola di Graz che non a KÖHLER;

2) egli scalza il principio di pregnanza, intesa come buona forma e regolarità, per mezzo di una serie di controesempi che riducono tale fattore a effetto delle organizzazioni percettive, togliendogli il ruolo di condizione;

3) egli dimostra, con un esperimento 'alla WERTHEIMER', che la tendenza alla pregnanza può essere fuorviante nei processi di pensiero, e impedimento alla soluzione del problema.

In questo clima di maturazione scientifica avvenne l'incontro con la dott. Liliana BERNARDIS, brillante studentessa di filosofia interessata a problemi di teoria dalla conoscenza.

E' naturale che il mio progetto di descrivere una teoria della percezione 'iuxta propria principia', capace di fondare i propri concetti nel territorio stesso degli eventi percettivi oggetto di indagine e senza importazioni dalle scienze limitrofe, mi inducesse a una rilettura integrale delle opere dei gestaltisti classici, sui quali mi ero formato. A mano a mano che la mia rilettura procedeva facevo fare ai miei allievi più dotati tesi di laurea su vari aspetti teoretici della Gestaltpsychologie che sembravano ricoprire un ruolo critico.

Cosi, un dottorando lavorò a un disegno teoretico del pensiero di Kurt LEWIN spogliato completamente dagli intrighi di una improbabile Topologia (che nessun matematico avrebbe preso sul serio), e ne uscì una ricca analisi dell'esperienza considerata 'in un istante dato' come fonte di una nuova epistemologia. Una dottoranda studiò le ragioni, storiche e sistematiche, dell'antipositivismo di Kurt KOFFKA , così drasticamente affermato in conclusione del suo libro fondamentale, i "Principles of Gestalt Psyohology". Il più esteso tentativo di ripensamento teoretico fu svolto in una tesi di laurea sui procedimenti di falsificazione empirica tipici dei gestaltisti e il criterio epistemologico di falsificabilità, enunciato da KÖHLER ben prima, che da POPPER, nel saggio sulle 'Sensazioni inavvertite e i giudizi inconsci' [3 KÖHLER, Wolfgang (1913): Über unbemerkte Empfindungen und Urteilstäuschungen. Zeitschrift für Psychologie, 66.] ma il risultato della ricerca e la qualità del lavoro svolto non furono all'altezza del progetto.

Invece il lavoro con la dott, Liliaoa BERNARDIS, che durò più di due anni (1976-1978) apparve fin dall'inizio fecondo, interessante e chiarificatore. Se qualcuno oggi mi chiedesse quanta parte delle idee da lei sostenute in quella tesi di laurea io mi senta di condividere dovrei dire tutte, pochè alla fine delle nostre lunghissime discussioni era impossibile dividere il mio apporto dal suo. Non fu un lavoro in cui il Professore guidasse dall'esterno il lavoro di ricerca di un allievo, ma la collaborazione tra due studiosi che volevano chiarire le idee prima di tutto a se stessi, servendosi di KÖHLER come di un maestro, nel pieno rispetto del suo pensiero e con filologica cura, ma al di fuori dei comuni schemi interpretativi volgarizzati tra gli psicologi sulla teoria della Gestalt. La rilettura delle opere di KÖHLER andava rivelando un sottofondo teoretico originalissimo, tanto che io ancora oggi mi sento di sostenere che il suo vero pensiero deve essere ancora meditato e capito, e che appartiene al futuro della psicologia sperimentale, una volta che sia passata la sbornia cognitivistica e dell' Intelligenza Artificiale.

Il cuore del problema stava nel comprendere il rifiuto del dualismo psicofisico, e la proposta di una concezione a forte tendenza monistica dell'esperienza, a partire dall'esperienza percettiva.

La difficoltà, mi rendevo allora conto, stava nello stato paradossale del linguaggio tecnico della psicologia sperimentale, nel suo gergo da laboratorio, e infine inevitabilmente nei concetti d'uso comune.

Mi spiego: gli psicologi della Gestalt scrivono nello stesso linguaggio tecnico generalmente usato nelle riviste di psicologia da HELMHOLTZ in poi, e mediante quel gergo raccontano le loro scoperte e i loro controlli sperimentali, che poi riespongono in quadri sistematici nei loro libri, quando ne scrivono. Ecco il problema: gli stimoli da una parte, le percezioni dall'altra; i processi del sistema nervoso periferico e centrale da una parte, e ancora le percezioni e le strutture più complesse dell'esperienza dall'altra; la misura fatta con i sistemi della fisica elementare da una parte, le valutazioni qualitative scalarmente ordinate di proprietà di eventi percettivi dall'altra; il quantitativo della fisica da una parte e la quantità come qualità del vissuto dall'altra. Questo mescolamento di categorie produce la netta sensazione di un irrimediabile dualismo sottostante, di un ingenuo dualismo - direi - con la materia settecentescamente intesa che fa da supporto alla psiche, allo spirito, magari all'anima.

Anche lo psicologo dotato delle migliori intenzioni monistiche ci casca, e parla e ragiona come un dualista. A volte mi era accaduto di sentire un collega durante la stessa conferenza trattare gli oggetti della sua ricerca sperimentale nell' ovvio quadro di una contrapposizione tra mondo fisico e mondo fenomenico, e poi concludere con qualche bel monismo di programma, come un riduzionismo neurofisiologico o un comportamentismo accademicamente conformista.

Lo studio approfondito delle tesi di KÖHLER (alle quali avevo già dedicato un saggio nel 1966 [4 BOZZI, Paolo (1965): Introduzione alle tesi di Wolfgang Köhler. In: Principi dinamici in Psicologia. Firenze: Giunti.] condusse me e la dott. BERNARDIS a smantellare una tale opposizione, e a vedere da vicino tutta la coerenza e la fecondità di un monismo tenuto in sospeso ma perseguito attraverso la ricerca, la quale si realizza mediante modelli improntati a un dualismo meramente epistemologico, sostanzialmente provvisorio e di natura fondamentalmente terminologica e modellistica: da una parte i fatti descritti con il linguaggio delle neuroscienze e dall'altra gli stessi fatti trattati con la grammatica di una fenomenologia sperimentale.

I risultati di queste percorso sono bene illustrati nell'articolo della dott. BERNARDIS, e non è il caso che io li ripeta qui. Ricorderò solo le nelle lunghe giornate di lavoro, di letture e di discussioni trascorse con lei a Trieste, e la stimolante presenza tra noi della dott. VALDEVIT, eccellente grecista occupata a rileggere PLOTINO, e ora, su queste pagine, traduttrice del lavoro della BERNARDIS. Chi lo avrebbe pensato, allora!

Quanto a me, negli anni successivi ho lavorato in direzione di un monismo realistico sempre più accentuato e intransigente, che però contiene tutto quello che ho imparato da KÖHLER e discusso con METZGER in occasioni che racconterò in un altra occasione.

Sono, in Italia, tra i pochissimi a credere che l'impianto teoretico dei gestaltisti classici appartiene più al futura della psicologia della percezione (oggi detta Percettologia) che non al suo passato; e molte delle debolezze della percettologia d'oggi dipendono dal fatto di non aver nè capito nè letto i testi classici della Gestalttheorie.

Le interpretazioni cognitivistiche, neocognitivistiche e computazionali della percezione sono una versione ingigantita e caricaturale del giudizio inconscio, la cui radicale eliminazione sta alla base del gestaltismo e della sua fecondità empirica. Ma naturalmente la postulazione di un inconscio cognitivo che silenziosamente elabora algoritmi adatti a trasformare l'informazione sensoriale in percezione favorisce l'uso, la costruzione e la vendita dei computers, e una ( o più d'una ) concezione informazionale della mente. Così il 'giudizio inconscio' che, secondo KÖHLER (1913) letteralmente impedisce la scoperta in psicologia della percezione trova il più formidabile dei supporti nel mondo accademico e scientifico; l'economia, cioè la produzione e il commercio di macchine calcolatrici.

Ma la mia fiducia in una ripresa del lavoro fenomenologico intrapreso dai gestaltisti classici resta abbastanza grande, poiché i fatti da scoprire sono ancora molti, e il quadro d'insieme di ciò che popola la nostra esperienza immediata è ben lontano dall'essere completo; e i fatti della percezione aspettano con pazienza di essere scoperti, indifferenti alla distrazione dei ricercatori che gli passano vicino senza vederli.

Certo, a carico dei gestaltisti hanno giocato un ruolo negativo alcuni evidenti errori: un autore come Kurt LEWIN ha perso credito usando concetti matematici in cui nessun matematico si riconosce, e lo stesso KÖHLER ha insistito fortemente, con testarda perseverazione fino all'ultimo, nel proporre una fisiologia del cervello che nessun fisiologo di mestiere poteva accettare, e ai nostri giorni meno che mai. Questo deve insegnarci che una fenomenologia sperimentale pura, pur essendo il punto di partenza per ogni impresa scientifica nel mondo transfenomenico, deve guardarsi dall'importazione di schemi, idee e concetti foggiati altrove, secondo le incerte massime di un ideale "De Imitatione Scientiarum".

La rilettura dei classici della Gestalttheorie va oggi rifatta prestando estrema attenzione ai temi di fenomenologia sperimentale, che sono molti e fecondi, e in gran parte ancora inesplorati, tenendo sotto controllo le tentazioni interdisciplinari oggi tanto di moda, le cui intromissioni interferiscono negativamente sulla fantasia creatrice e sulla originalità delle osservazioni del fenomenologo sperimentale dotato.